Il giardino come luogo di riappropriazione dell’identità femminile

Laura Mattioli

 Donne e geografia urbana

Sia nel contesto italiano che in quello europeo, nell’età moderna i luoghi pubblici rappresentavano spazi pericolosi per le donne, gremiti di rischi sia per la loro incolumità che per la loro reputazione. Strade, piazze e vicoli erano luoghi transitori popolati quasi esclusivamente da uomini, spesso impegnati a sbrigare affari o a contrattare nei centri mercantili, altre volte intenti a passare il tempo tra gli ebbri piaceri della taverna e del bordello. Infatti, la popolazione femminile che circolava più frequentemente per questi ambienti era formata prevalentemente da meretrici (diverse dalle più ricercate “cortigiane oneste”, le colte prostitute di lusso dei saloni veneziani che, oltre ad offrire piacere fisico ai loro accompagnatori, partecipavano alle discussioni all’interno dei circoli intellettuali), le quali operavano negli appositi bordelli e che erano dunque continuamente esposte al rischio di subire violenza fisica e verbale. Per le nobildonne, o per quelle che non appartenevano al ceto più basso della popolazione, lo spazio aperto apportava inoltre il rischio di corruzione morale: l’ambiente delle taverne e dei bordelli non si addiceva infatti al decoro femminile. Per una nobile veneziana, dunque, passeggiare a Rialto, una zona che racchiudeva sia il fulcro dell’attività commerciale ed economica della città, sia il centro dell’impudica vita mondana, significava esporsi a rischi di natura sia fisica che morale.

Tuttavia, i pericoli del mondo esterno non erano l’unico motivo per cui le donne (eccetto le meretrici, le appartenenti ad alcuni ordini religiosi, le mendicanti e talvolta le mogli di artigiani, costrette per necessità ad uscire) venivano raramente avvistate in strada. La divisione dello spazio urbano si basava prevalentemente sulla dicotomia aristotelica che vede l’uomo come agente attivo, razionale e dominante e la donna come passiva, soggetta alle passioni irrazionali e per natura inferiore all’uomo. Se, dunque, il posto dell’uomo era fuori, a procacciarsi da vivere nel mondo esterno, la donna aveva invece il compito di custodire e amministrare i beni che il padre o il marito portava a casa. La strada, la piazza e la città in generale diventano così spazi prevalentemente “maschili”, luoghi abitati e vissuti dagli uomini, mentre la casa si trasforma nello spazio femminile per eccellenza. Questa distinzione tra spazio interno ed esterno era consolidata dai vari trattati sul comportamento che circolavano all’epoca: un esempio molto famoso è quello de I libri della famiglia di Leon Battista Alberti, il quale scrive che

…è l’animo dell’uomo assai piú che quello della femmina robusto e fermo a sostenere ogni impeto de’ nimici, e sono piú forti alle fatiche, piú constanti negli affanni, e hanno gli uomini ancora piú onesta licenza uscire pe’ paesi altrui acquistando e coadunando de’ beni della fortuna. Contrario le femmine quasi tutte si veggono timide da natura, molle, tarde, e per questo piú utili sedendo a custodire le cose, quasi come la natura cosí provedesse al vivere nostro, volendo che l’uomo rechi a casa, la donna lo serbi. Difenda la donna serrata in casa le cose e sé stessi con ozio, timore e suspizione. L’uomo difenda la donna, la casa, e’ suoi e la patria sua, non sedendo ma essercitando l’animo, le mani con molta virtú per sino a spandere il sudore e il sangue. (Alberti, 230-231)

Il desiderio di tenere le donne ancorate alla sfera domestica non era però solo un modo di preservare il loro onore, ma anche di controllare la loro sessualità: sia la loro preziosa virginità che la lealtà coniugale venivano più facilmente preservate se esse erano tenute lontano da sguardi indiscreti[1]. Nella società patriarcale del tempo, dunque, la sessualità femminile era oggetto di grande ansia: gli spazi chiusi come la casa e il convento permettevano di limitare (ma non di completamente esorcizzare) il rischio di relazioni extraconiugali. Che fosse per prevenire, per controllare o per contenere la sessualità femminile, lo spazio chiuso forniva il luogo ideale per esercitare controllo sopra le donne.

 

Il giardino come spazio femminile

 

La distinzione tra spazio urbano come maschile e spazio domestico o devozionale come prevalentemente femminile incarna le divisioni di genere dettate dal binarismo aristotelico. L’innata razionalità dell’uomo si rispecchia nelle virtuose forme geometriche della città rinascimentale, in cui linee rette, cerchi e quadrati rendono il paesaggio urbano ordinato secondo una logica puramente razionale. La millenaria associazione tra donna e natura, invece, dà origine a un altro spazio che, sin dall’Antichità, viene associato alla femminilità: il giardino. Circoscritto all’interno del perimetro delle case nobiliari, il giardino era uno spazio separato sia dalle claustrofobiche mura domestiche, sia dal mondo esterno; come tale, rappresentava un luogo di convivialità in cui le donne potevano incontrarsi senza incorrere nei pericoli della strada. L’amenità di questo luogo distaccato dalle regole del mondo e la sua eterna associazione con il corpo femminile hanno ispirato innumerevoli testi letterari in cui esso viene rappresentato come spazio della femminilità, seppure in modi molto diversi: da un lato apparendo come luogo di devozione e dimora della donna pura, dall’altro come spazio di amore e seduzione.

Questa distinzione viene ritrovata per la prima volta nel Cantico dei Cantici: in questo antico poema, che riporta il dialogo d’amore tra due promessi sposi, la futura moglie viene comparata ad un giardino: “O mia sorella, o sposa mia, tu sei un giardino serrato, una sorgente chiusa, una fonte sigillata” (4,12). La lettura più ortodossa del Cantico ha voluto interpretare il dialogo allegoricamente come il matrimonio tra Cristo e la Chiesa: in questo caso, l’analogia tra la donna ed il giardino evoca simbolicamente la virginità della donna, che, come una “fonte sigillata”, viene custodita e gelosamente controllata. Il giardino, come luogo circoscritto e sorvegliato, diventa simile alla casa in quanto costituisce uno spazio impenetrabile, accessibile solo all’uomo che ne possiede, simbolicamente, le chiavi. Seguendo questo filone d’interpretazione, il giardino chiuso verrà successivamente associato alla più pura delle donne, la Vergine Maria, il cui modello di castità costituisce un ideale irraggiungibile per il genere femminile.

Al di là della lettura allegorica, però, il Cantico rimane un dialogo d’amore in cui il desiderio che i due sposi provano l’uno per l’altra viene reso esplicito. Seguendo questa interpretazione più letterale, il giardino diventa un luogo dedito agli incontri tra gli amanti, un sito che con la sua bellezza risveglia le passioni umane e permette la libera espressione del sentimento amoroso. Questa nuova associazione diventerà una convenzione letteraria particolarmente utilizzata nella letteratura pastorale e nel romanzo cavalleresco medievale, in cui i cavalieri spesso si riuniscono alle loro innamorate nei giardini.

A partire dal ‘500, tuttavia, il nuovo poema epico-cavalleresco inizia a distorcere l’immagine del giardino come sito di incontri amorosi per trasformarlo in un luogo ingannevole e pericoloso. In opere come l’Orlando Furioso di Ariosto o la Gerusalemme Liberata di Tasso, ma anche in altri testi europei quali la Faerie Queene di Spenser, esso diventa un luogo che, seppur appaia idilliaco, si rivela essere pieno di insidie. La liberazione delle passioni amorose diventa sfrenata: una volta giunti nel giardino, che viene spesso localizzato su un’isola situata oltre i confini del mondo conosciuto, i cavalieri dimenticano la loro missione eroica e si perdono nei vizi che tale luogo gli concede. Abitato da donne bellissime e da una splendida incantatrice, il giardino offre lo sfogo della lussuria ma si palesa presto come un inganno: infatti, le incantatrici, che appaiono come giovani e attraenti donzelle, si rivelano essere vecchie streghe in grado di mutare la loro forma grazie a degli incantesimi. Allo stesso tempo, il giardino, che inizialmente appare come un locus amoenus, si scopre essere un luogo arido e secco che rispecchia la vecchiaia e decadenza delle maghe che vi abitano. Così, l’isola di Alcina nel Furioso ed il giardino di Armida nella Gerusalemme Liberata si trasformano in luoghi non più di amore, ma di sfrenata lussuria: lo spazio aperto del giardino, che non viene limitato da muraglie di alcun tipo, rappresenta l’eccessiva e incontenibile sessualità femminile, allo stesso tempo attraente e pericolosa. Al contrario del giardino chiuso, simbolo della castità della vergine, il giardino delle isole dell’epica rinascimentale rappresenta la libido eccessiva delle donne, e diventa perciò un luogo in cui l’eroe rimane succube dei suoi desideri e dimentica l’importanza della sua missione. La rappresentazione del giardino nella letteratura scritta da uomini fa eco alle ansie che essi nutrivano per la sessualità femminile, le quali venivano rappresentate nella vita reale attraverso la divisione dello spazio: se la chiusura rappresenta il controllo, l’apertura verso l’esterno simbolizza il pericolo.

 

La scrittura femminile e la rivendicazione del giardino

 

Tuttavia, quando sono le donne ad utilizzare la propria voce, il giardino acquisisce di nuovo un altro aspetto. La rivendicazione del giardino nella scrittura femminile del tardo Cinquecento e Seicento è un fenomeno che ha preso piede particolarmente nella letteratura inglese, in cui si osserva come una sorta di trend in differenti autrici. Celeberrimo esempio è quello di Aemilia Lanyer, poetessa britannica di discendenza italiana che nel suo poema The Description of Cooke-ham (1611) descrive il giardino della sua patrocinante come un paradiso per le donne, in cui è possibile stabilire una connessione spirituale con Dio. Altre autrici come Lady Mary Wroth in The Countess of Montgomery’s Urania (1621) reclamano il giardino come luogo di comunità e amicizia femminile, in cui le donne, libere dal controllo degli uomini, coltivano non le passioni amorose ma le loro capacità spirituali ed intellettuali. Nella scrittura femminile, il giardino recupera i suoi tratti idealistici fino a diventare un paradiso in cui le donne sono le vere protagoniste. In questo senso, esso diviene uno dei luoghi privilegiati per la descrizione di società ideali femminili, anche definibili come “utopie”. È notevole il fatto che, mentre i romanzi o trattati scritti da uomini che descrivono una società utopica prendono quasi sempre come modello la creazione di una città ideale (seguendo l’esempio dell’Utopia di Thomas More, testo che dalla sua pubblicazione nel 1516 ha tracciato i parametri per lo sviluppo di questo fortunatissimo genere letterario), le utopie femminili, un contro-genere quasi del tutto ignorato dalla critica, utilizzano spesso il modello del giardino per immaginare mondi migliori, riprendendo quindi la distinzione tra città come spazio maschile e natura come femminile.

Anche nel contesto italiano le autrici hanno adoperato la riscrittura del giardino come forma di affermazione personale e di rivendicazione della dignità femminile. Nei Dialoghi Spirituali di Chiara Matraini, pubblicati nel 1602 ma probabilmente scritti qualche decade prima, Teofila (“amante di Dio”) istruisce Filocalio (“amante della bellezza”) con un discorso sui vizi e sulle virtù. Il dialogo, diretto dalla donna, avviene nel “giardino dell’humane scienze”, il giardino della conoscenza umana. L’idilliaco giardino si afferma come luogo in cui l’intelletto femminile, la sapienza e la connessione spirituale vengono rivendicati: la donna, anziché passiva ed inferiore, assume il ruolo di mentore e maestra, in un lavoro che precede di diversi anni i più famosi testi delle autrici inglesi.

Questa rivendicazione del valore della donna appare in maniera più eclatante nella famosa opera di Moderata Fonte, Il merito delle donne (1600). In questo testo protofemminista, Fonte immagina il dialogo tra sette donne di diversa età e stato civile che si incontrano nel bellissimo giardino di una villa veneziana per discutere del valore delle donne e dei delitti degli uomini. Nella seconda giornata, le amiche si dilungano in una discussione che esamina vari aspetti del mondo naturale, dimostrando la loro vasta sapienza e capacità argomentativa. Come nei testi precedenti, la conformazione del giardino rispecchia la natura dei personaggi femminili che vi abitano: se, nelle altre opere, la chiusura rappresentava la protezione della castità e l’apertura del paesaggio epico come metafora della sessualità liberata, qui il giardino acquisisce un nuovo significato.

Situato all’interno di una villa e abbracciato dai canali, il giardino si distingue per la sua conformazione in cui abbondano le forme geometriche, le quali riprendono lo stile manierista in voga al tempo: le piante sono tutte tagliate e allineate in modo da formare “i triangoli, gli ovati, i quadrati ed altre maniere di grazioso artificio.”[2] La presenza di forme circolari, quadrate e di linee rette, che nella città simboleggia il virtuosismo della razionalità maschile, è sfruttata qui allo stesso modo per raffigurare la capacità intellettuale femminile. La forma ordinata del giardino riflette uno dei punti principali della discussione, ovvero che le donne, lungi dall'essere semplici oggetti di desiderio, sono razionali e intelligenti. Il piccolo paradiso della villa di Leonora diventa così uno spazio della conoscenza; la sua bellezza contenuta e ordinata contrasta con l'immagine di sessualità sfrenata del giardino epico e rovescia completamente la rappresentazione della donna come pericolosamente seducente che tali testi propinavano. Se nei testi precedenti il giardino era un’estensione del corpo femminile, in Fonte si potrebbe dire che è un'estensione della mente femminile: la sensualità abbandona il giardino per lasciare spazio all'affermazione intellettuale.

In questo modo, Fonte, come Matraini, si distacca dalla caratterizzazione che vede il binomio donna-giardino solo nella sua accezione di vergine o tentatrice per dimostrare che le donne sono virtuose quanto gli uomini, e forse anche di più. Nonostante la castità venga lodata da molte delle interlocutrici poiché permette loro di vivere in assenza della compagnia degli uomini, questa non rappresenta più la qualità essenziale della donna ma solo una delle sue sfaccettature. In altre parole, la femminilità viene descritta nelle sue varie forme, lodata tanto per le sue virtù come per la sua razionalità. Allo stesso tempo, il giardino in cui le donne fanno sentire la propria voce diventa specchio della loro personalità.

Attraverso le sue varie rappresentazioni, il giardino si trasforma in uno spazio simbolico che da un lato evoca il desiderio di controllo della società patriarcale sulle donne, e dall’altro incarna la volontà di esse di affermarsi come soggetti attivi, protagonistici e, soprattutto, altamente razionali. La rivendicazione dello spazio è un primo passo verso la rivendicazione della figura della donna in generale: liberandolo dalle restrizioni dell’immaginazione maschile, le autrici distruggono il binarismo aristotelico e costruiscono un’immagine di sé che non le vede più come oggetti del desiderio ma come soggetti attivi e razionali.

 



Bibliografia

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[1] Tuttavia, gli spazi domestici non costituivano luoghi del tutto impenetrabili: le donne appoggiate alle ringhiere dei balconi o sedute di fronte al cornicione della finestra attiravano gli sguardi dei passanti, che spesso e volentieri trovavano il modo di penetrare nelle dimore e creare liaisons con le abitanti, che a loro volta sfruttavano l’assenza dei mariti per creare relazioni con il mondo esterno.  

[2] Moderata Fonte, Il merito delle donne: ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più perfette de gli uomini, a cura di Adriana Chemello (Mirano: Editrice Edios, 1988) p. 19



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