La lirica femminile del Cinquecento
Un fenomeno inedito
Et oltre a questi et altri ch’oggi avete,
che v’hanno dato gloria e ve la dànno,
voi per voi stesse dar ve la potete;
poi che molte, lasciando l’ago e ’l panno,
son con le Muse a spegnersi la sete
al fonte d’Aganippe andate, e vanno;
e ne ritornan tai che l’opra vostra
è più bisogno a noi, ch’a voi la nostra.
Se chi sian queste, e di ciascun voglio
render buon conto, e degno pregio darle,
bisognerà ch’io verghi più d’un foglio,
e ch’oggi il canto mio d’altro non parle:
e s’a lodarne cinque o sei ne toglio,
io potrei l’altre offendere e sdegnarle.
Che farò dunque? Ho da tacer d’ognuna,
o pur fra tante sceglierne sol una?
(Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, XXXVII, 14-15)
Queste due ottave tratte dal canto XXXVII dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto registrano un fenomeno senza precedenti nella storia letteraria non solo italiana ma anche europea: abbandonando le tradizionali forme di espressione artistica femminile come il ricamo, ci dice Ariosto, le donne hanno volto il loro impegno alle Muse, ossia alla scrittura poetica, e hanno raggiunto tali risultati da insidiare il ruolo della scrittura maschile. Con la sua consueta ironia (che rivela una certa inquietudine tipica dei dibattiti della cosiddetta querelles des femmes), Ariosto nota che il compito di nominare tutte le donne scrittrici lo impegnerebbe per più di una giornata. Nel Cinquecento italiano, in effetti, si assiste ad una straordinaria affermazione della scrittura femminile in generale e della lirica in particolare e le parole del poeta ferrarese ci restituiscono un’idea dell’estensione del fenomeno. Nonostante i molti caveat da fare per una società che considera il genere femminile inferiore a quello maschile e relega le donne a ruoli subordinati escludendole dalle vie maestre dell’educazione, quest’epoca appare un periodo significativamente favorevole per poetesse e scrittrici.
Come ha notato Virginia Cox, un ruolo fondamentale nell’affermazione della scrittura e in particolare della lirica femminile venne svolto dal contemporaneo affermarsi della particolare forma di petrarchismo proposta dal poeta e umanista Pietro Bembo. Con le sue Prose della volgar lingua (1525) e ancora prima con la sua opera di poeta in proprio, Bembo rivoluzionò la pratica poetica cinquecentesca superando la frammentazione linguistica del Quattrocento, rappresentata dai numerosi idiomi parlati dalle diverse corti italiane, e proponendo invece un modello unico da imitare, quello del Canzoniere di Petrarca. La formalizzazione linguistica così proposta portò ad una generale democratizzazione della pratica letteraria, vista l’accessibilità delle norme del fare poetico attraverso la lettura (e non solo attraverso l’appartenenza ad una corte). La democratizzazione del sapere si tradusse in una maggior partecipazione femminile: se, come si vedrà, le scrittrici della prima metà del secolo appartenevano ancora ai gruppi sociali tipici della pratica letteraria quattrocentesca, nella seconda parte del Cinquecento la scrittura femminile si fece più diversificata e democratica.
L’adozione di Petrarca come modello da imitare non costituiva però soltanto una democratizzazione degli strumenti linguistici: il modello petrarchesco appariva particolarmente adatto anche alla posizione sociale della donna scrittrice in lingua volgare. La poesia petrarchesca presentava infatti un io lirico che ben si adattava ad operare entro le norme morali del tempo e in particolare del ‘decoro’ femminile (Smarr 2001 e Cox 2008). Privo di elementi sensuali e sempre più frequentemente interpretato in chiave neoplatonica come un percorso di ascensione alla contemplazione divina, l’amore petrarchesco permetteva alle scrittrici di mantenere una reputazione di donna ‘onesta’ e dunque essere (relativamente) protette da attacchi misogini da parte del pubblico maschile. Il modello petrarchesco, in altre parole, era particolarmente adatto per le strategie di auto-rappresentazione delle poetesse e in generale per la loro negoziazione* della posizione stessa di scrittrici in un periodo in cui ciò necessitava ancora di una legittimazione socioculturale. Come si vedrà, tuttavia, l’aderenza al paradigma petrarchesco non implicava però una passiva imitazione del modello: come notato da Ann Rosalind Jones, il cambiamento di genere del soggetto lirico produsse una profonda trasformazione del dettato petrarchesco, aggiungendo significati del tutto nuovi e inediti (Jones 2015).
Le due iniziatrici: Vittoria Colonna e Veronica Gambara
In questo contesto, una scrittrice in particolare svolse un ruolo fondamentale: Vittoria Colonna (ca. 1490-1548), una delle più celebri autrici di quest’epoca.
Sebastiano del Piombo, Ritratto di Vittoria Colonna, ca. 1520-1525.
Nata intorno al 1490 a Marino (Roma) dalla celebre casata romana, Vittoria Colonna si trasferì presto a Ischia, a seguito del matrimonio con Francesco Ferrante D’Avalos, marchese di Pescara e comandante delle truppe spagnole in Italia. Sull’isola partenopea ebbe modo di risiedere alla prestigiosa corte di Costanza d’Avalos, duchessa di Francavilla, dove perfezionò la sua formazione letteraria e cominciò a cimentarsi nella poesia petrarchista. Le sue prime prove poetiche non sono giunte a noi, ad eccezione di un unico testo, di stile ancora vicino alla lirica cortigiana, Eccelso mio signore, questa ti scrivo, una poesia epistolare scritta in occasione dell’assenza del marito e del padre impegnati nella battaglia di Ravenna (1512). Dopo la morte del marito nel 1525, Colonna cominciò a scrivere poesie dedicate al defunto, le cosiddette rime vedovili. L’esperienza del lutto indusse la Colonna ad approfondire la propria vita contemplativa, e la portò ad entrare in contatto con la spiritualità di Michelangelo Buonarroti e con i protagonisti dell’evangelismo italiano. Da vedova si ritirò come ospite nel convento di San Silvestro a Roma, dove morì nel 1547. La produzione di Colonna non approdò mai alle stampe nella sua completezza e secondo una raccolta voluta dall’autrice. Questa scelta era probabilmente legata alle norme di genere e di classe dell’epoca, che vedevano nella stampa un medium troppo ‘popolare’ e non adatto alla ‘modestia’ femminile. Nonostante questa decisione, le poesie di Colonna vennero però pubblicate a più riprese in edizioni che oggi definiremmo ‘pirata’, a testimonianza della grande richiesta che ricevettero da parte del pubblico: la prima di queste, allestita a Parma da Filippo Pirogallo nel 1538, costituisce il primo caso di pubblicazione a stampa di una scrittrice italiana. Le edizioni della poesia colonniana si susseguirono attraverso tutto il secolo, ottenendo fama internazionale e segnando un successo editoriale senza precedenti per una poetessa, venendo talvolta anche accompagnate da un commento (una novità assoluta per una scrittrice – o scrittore – ancora in vita).
La produzione di Colonna a noi nota riguarda il periodo successivo alla morte del marito Francesco Ferrante a causa delle ferite riportate nella battaglia di Pavia (1525). Colonna cominciò a scrivere le rime vedovili, ispirandosi al modello petrarchesco delle rime in morte di Laura (ma anche a quello dantesco della Vita nova). Queste liriche esplorano i temi della solitudine della sopravvissuta e del ricordo del defunto, della sofferenza interiore e del ruolo della ragione nel contenerla, della funzione terapeutica della parola poetica, della lode del marito scomparso e della fedeltà matrimoniale oltre la morte. Come è stato osservato da Abigail Brundin (Brundin 2008), la vedovanza acquisì un ruolo centrale nell’auto-rappresentazione poetica di Colonna nonché nel suo immediato successo letterario, perché prefigurava un soggetto che non solo aveva rimosso l’aspetto più fisico e sensuale del desiderio amoroso, ma che continuando a proclamare una fedeltà verso il defunto marito non poteva che trovare apprezzamento presso il pubblico (maschile) dell’epoca. Pur proponendo una voce femminile ancora entro i limiti di una relazione con il soggetto maschile, la poesia di Colonna, però, si caratterizza anche per una profonda ridiscussione delle norme della società patriarcale del tempo. Attraverso la propria poesia, Colonna rivendicò non solo l’espressione del proprio lutto e la sua legittimità, ma anche la legittimità stessa della propria poesia vedovile: il suo testo proemiale, Non scrivo sol per sfogar l’interna doglia, è un perfetto esempio di questa operazione.
Scrivo sol per sfogar l’interna doglia
ch’al cor mandar le luci al mondo sole,
e non per giunger lume al mio bel Sole,
al chiaro spirto e a l’onorata spoglia.
Giusta cagion a lamentar m’invoglia;
ch'io scemi la sua gloria assai mi dole;
per altra tromba e più sagge parole
convien ch'a morte il gran nome si toglia.
La pura fe’, l’ardor, l’intensa pena
mi scusi appo ciascun; ché ’l grave pianto
è tal che tempo né ragion l’affrena.
Amaro lacrimar, non dolce canto,
foschi sospiri e non voce serena,
di stil no ma di duol mi danno vanto.
Se la poesia vedovile di Colonna delinea un percorso di elaborazione e superamento del lutto, la sua produzione successiva, le cosiddette rime spirituali, si concentra invece sull’esperienza religiosa ed inaugura un genere del tutto nuovo all’interno della tradizione letteraria italiana. La poesia religiosa presenta infatti diversi esponenti nei secoli precedenti, ma Colonna fu la prima a proporre una poesia di ispirazione soggettiva, che descrive l’esperienza vissuta di un io lirico e della sua spiritualità profonda e tormentata. Queste poesie delineano una meditazione spirituale sulla propria condizione di credente, sulla caducità umana e il rapporto tra anima e corpo, sulle figure sacre (tra cui, oltre alla centralità di Cristo, particolare risalto assumono anche la Vergine Maria e Maria Maddalena) e soprattutto sulla propria fede e sulla necessità della grazia divina. Questa nuova poesia di Colonna era il prodotto di un interesse religioso che eludeva la dimensione strettamente letteraria e che la vedeva protagonista della riforma interna della Chiesa cattolica precedente al Concilio di Trento, e talvolta anche pericolosamente vicina a figure ereticali come il predicatore Bernardino Ochino. Le tracce di questo pensiero religioso riformatore sono visibili sia nel rapporto diretto tra il l’io lirico come fedele a Cristo sia, soprattutto, nella dottrina della sola fide, ossia della possibilità di ottenere la salvezza spirituale unicamente attraverso la fede in Cristo. La natura extra-letteraria di questa ricerca spirituale ed esistenziale influenzò anche l’organizzazione e la circolazione di queste rime. Contrariamente a quanto avvenne per la sua poesia vedovile, per quella spirituale Colonna fece preparare un manoscritto con un preciso ordinamento delle proprie composizioni poetiche e lo donò ad una persona a cui era legata da una speciale amicizia, Michelangelo Buonarroti. Fu dunque secondo queste linee che Colonna aprì la strada alla scrittura femminile rinascimentale.
Frontespizio di un’edizione delle Rime (1540) di Vittoria Colonna.
Un’altra figura fondamentale nella lirica femminile cinquecentesca, spesso abbinata a Colonna negli elogi del tempo, è quella di Veronica Gambara. Nata a Brescia nel 1485 da una nobile famiglia del luogo, Gambara si trasferì a Correggio (Reggio Emilia) dopo il matrimonio con il conte Giberto X, signore della città. Nel 1518 Gambara rimase vedova e questa esperienza divenne anche per lei, come per Colonna, fondamentale per la propria auto-rappresentazione poetica. Anche Gambara, come Colonna, decise di non pubblicare a stampa le sue poesie, che definì ‘sciocchezze’ (un’affermazione di modestia con una lunga ed eminente tradizione, a partire dalle nugae catulliane). Sfortunatamente, ciò ha comportato anche l’assenza di un ordinamento autoriale della sua poesia, che rimase dispersa in numerosi manoscritti e raccolte antologiche fino alla sua riscoperta settecentesca. Come nel caso di Colonna, le poesie di Gambara devono però aver goduto di una buona circolazione manoscritta, anche favorita dall’importanza della sua figura come governante reggente di Correggio e dai suoi molti legami con figure letterarie (su tutti Bembo) e politiche (sia il papa Clemente VII che l’imperatore Carlo V) dell’epoca.
Antonio da Correggio, Ritratto di dama, ca. 1517-1581 (solitamente identificata come Veronica Gambara).
A differenza di Colonna, invece, le poesie a noi giunteci di Gambara includono anche i temi amorosi in vita del marito: in particolare, Gambara scrisse componimenti sul tema degli occhi dell’amato (riprendendo una famosa sequenza petrarchesca) e il loro potere di elevare spiritualmente la poetessa, o sul tema della lontananza e di un ricongiungimento ostacolato dagli impegni militari del marito. Le poesie di Gambara accolgono però anche argomenti non amorosi, quali la contemplazione della natura o la gioia nel rivedere le terre d’origine, come in Con quel caldo desio che nascer sole:
Con quel caldo desio che nascer sole
in petto di chi torna, amando, assente,
gli occhi vaghi a vedere e le parole
dolci ascoltar del suo bel foco ardente;
con quel proprio voi, piagge al mondo sole,
fresch’acque, ombrosi colli, e te, possente
più d’altra che ’l sol miri andando intorno,
bella e lieta cittade, a veder torno.
Un’altra importante componente della poesia di Gambara infine è quella politica. Soprattutto nella seconda parte della sua carriera poetica, Gambara scrisse numerosi sonetti di corrispondenza che, rivolgendosi alle figure di primo piano dello scenario italiano e internazionale (tra cui anche il papa e l’imperatore), riflettevano sugli avvenimenti storici dell’epoca e fornivano consigli di prassi a chi leggeva.
L’affermazione, il declino, e un futuro da scrivere
Dopo queste due eminenti figure, la scrittura femminile conobbe una vera e propria esplosione. Nella seconda metà del secolo, come rilevato da Cox, si assistette a un’adozione da parte delle scrittrici di molti altri generi letterari. Tuttavia, la lirica continuò ad essere il campo di maggior espressione della scrittura femminile e conobbe anch’essa un’espansione senza precedenti, sia in termini quantitativi che qualitativi. Non tutte le poetesse però riscossero la stessa fortuna presso i contemporanei: alcune non ricevettero mai un vero e proprio accesso ai circoli letterari dell’epoca o persino non videro le proprie poesie pubblicate durante la loro vita.
Un caso esemplare di questa fragile fortuna è quello di Gaspara Stampa (1523-1554). Nata a Padova in una famiglia di orefici, visse gran parte della sua vita a Venezia, dove iniziò a coltivare il suo talento poetico e musicale e ad esibirsi all’interno dei circoli letterari della città. I suoi componimenti però non approdarono alla stampa se non dopo la sua morte nel 1554 (gli unici tre sonetti editi durante la sua vita si leggono in un’antologia pubblicata solamente l’anno precedente, il Sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori), quando la sorella ne curò un’edizione, proponendo una raccolta di 310 componimenti per lo più di tema amoroso.
Rime di Gaspara Stampa.
Le poesie di Stampa si concentrano principalmente sulla relazione con il conte Collatino di Collalto, come rivelato dai numerosi riferimenti nella sua poesia all’amante come ad un alto (anche nel significato di ‘nobile’) colle, lodato in versi dall’umile stile della poetessa (secondo la tipica affermazione di modestia):
me bassa e vile a scriver tanta pièta,
quel che può più che studio e che pianeta,
il mio verde, pregiato ed alto colle?
A differenza delle due iniziatrici Gambara e Colonna, l’amore espresso dall’io lirico di Stampa non era diretto ad una figura maritale bensì extra-coniugale. La poesia di Stampa sull’amore per il conte costituisce dunque una riscrittura radicale del paradigma di scrittura femminile: il suo amore non è del tutto ‘onesto’ per le norme morali del tempo e presenta talvolta accenti anche sensuali (un testo, ad esempio, celebra la precedente notte di passione); e ciò è solo parzialmente attenuato dal dominio dei temi della lontananza e del desiderio non ricambiato. Anche la sua poesia, come quella di Gambara e Colonna, individua in Petrarca il modello principale, come anche evidente dal sonetto che apre la raccolta, Voi ch’ascoltate in queste meste rime, che richiama chiaramente il sonetto proemiale del canzoniere petrarchesco Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. Significativamente, però, come notato da Jones, Stampa rivolge la sua poesia ad un pubblico esplicitamente femminile:
E spero ancor, che debba dir qualch’una
felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagione danno sì chiaro.
Sfortunatamente, tuttavia, le poesie di Stampa non godettero della stessa fortuna di quelle di Colonna, e, dopo la prima pubblicazione, scomparirono per più di un secolo dall’universo editoriale italiano (la loro riscoperta avvenne solo nel 1726, con la pubblicazione di una selezione di poesie da parte di Luisa Bergalli).
Un’altra esperienza di scrittura poetica femminile che ricevette alterne fortune è quella di Chiara Matraini (1515-1604). Della sua vita abbiamo poche e scarne notizie, sappiamo che nacque a Lucca da una famiglia borghese nel 1515 e che nel 1531 sposò Vincenzo Contarini. La ritroviamo nel 1542, vedova, e al centro di un circolo letterario e mondano, che le attirò le critiche moralistiche dei concittadini, poi rafforzatesi nel 1547 quando Matraini cominciò una nuova relazione amorosa con Bartolomeo Graziani. Nel 1555, Matraini pubblicò la prima edizione delle sue poesie, Rime e Prose, un’ampia raccolta di rime contenenti una sezione in vita dell’amato, una in morte e diverse poesie di corrispondenza, su uno schema che segue da vicino il modello del Canzoniere petrarchesco, dall’innamoramento fino alla conversione spirituale.
Dopo la pubblicazione di un’altra opera in prosa l’anno successivo, di Matraini si perdono le tracce e sembra che la sua opera fosse divenuta per qualche ragione ‘impubblicabile’ (Mario 2017). Matraini ricomparve nell’orizzonte letterario solo nel 1581 con le sue Meditazioni Spirituali, un’altra opera in prosa che inaugurava l’ultima fase, più spirituale, della sua carriera letteraria. Una decina di anni più tardi Matraini era poi al lavoro per pubblicare di nuovo le sue poesie: dopo un’edizione non definitiva nel 1595, le sue Lettere e rime del 1597 sancirono la fine della sua carriera poetica. Attraverso queste diverse edizioni della sua produzione Matraini rielaborò non solo la struttura della sua raccolta, cambiando l’ordinamento delle sue poesie, ma anche alcuni contenuti e connotazioni delle stesse. Come notato prima da Giovanna Rabitti e successivamente da Cristina Acucella, la terza raccolta di Matraini presenta toni più spiritualizzanti, proponendo un amore meno terreno e più neoplatonico, come strumento per l’ascensione spirituale. La sezione in morte del marito e quella della finale conversione spirituale, inoltre, si ampliano per costruire l’immagine di una vedova devota e pia. In ciò, Matraini prese diretta ispirazione dal modello colonniano, recuperandone le metafore (specialmente quella famosa dell’amato-Sole) e motivi (il corpo come prigione terrena, il rapporto diretto con Cristo per approdare alla conversione spirituale, l’approfondimento della figura della Vergine). Nel canzoniere matrainiano entrarono però anche altre figure come quelle del figlio e dei corrispondenti, che ampliano la descrizione dell’esperienza poetica verso nuovi orizzonti più quotidiani, poi esplorati anche dalle poetesse successive (specialmente nella poesia di Francesca Turina e Veneranda Bragadin).
Siamo ormai alla fine del sedicesimo secolo, quando la poesia femminile cominciò a perdere lo slancio degli inizi del secolo. In parallelo all’emergere di donne direttamente impegnate nella querelles des femmes, come Moderata Fonte e Lucrezia Marinella, e alla nascita del protofemminismo, la poesia lirica assistette invece ad una netta diminuzione di voci femminili. Come notato da Cox, questa tendenza è collegata a generali cambiamenti culturali che videro il declino della filoginia degli ambienti di corte, ma anche a ragioni letterarie, come l’affermarsi dello stile barocco, la cui poesia dai toni più sensuali e provocatorii risultava più difficile da adottare per un soggetto femminile senza incorrere negli attacchi misogini dei censori. Sfortunatamente, questa tendenza divenne presto la moda dominante e la cultura patriarcale archiviò così la straordinaria esperienza della lirica femminile, consegnando a secoli di oblio molte di queste scrittrici. Ad eccezione di alcune riscoperte della critica settecentesca, infatti, la poesia rinascimentale femminile è tornata a riemergere solamente nella seconda metà del ventesimo secolo, primariamente grazie alle ricerche di studiose anglosassoni, e costituisce ancora oggi un campo tutto da scoprire, o meglio, riscoprire.
* Negoziazione: il termine, un prestito dall’inglese negotiation, è ampiamente utilizzato nella critica anglosassone per spiegare il fenomeno di ‘contrattazione’ della propria identità di scrittrice e dei contenuti della propria scrittura in relazione alle norme socio-culturali imposte dalla cultura patriarcale dominante.
Bibliografia
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Studi:
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